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giovedì 17 novembre 2011

Dampyr Speciale n. 7 (Dolorosa riflessione sul fumetto italiano)

La particolare considerazione che ho sempre avuto del fumetto italiano deriva essenzialmente dalla politica editoriale dell'azienda di punta in questo settore, la Sergio Bonelli Editore.
Il fumetto Bonelli rappresenta per me e non solo un punto d'incontro tra il fumetto d'autore, attento sia alla sceneggiatura che al disegno, e il fumetto di consumo, popolare e per questo concentrato in primo luogo su logiche di vendita. Da sempre i vari prodotti della casa editrice si orientano fra questi due poli con risultati diversi che ne modificano le caratteristiche in base alla longevità.

Quello che cerco io in un fumetto è (o forse era) perfettamente sintetizzato da Dampyr, pubblicato a partire dal 2000: si tratta di una serie che unisce diversi generi (specialmente l'horror e l'azione) a un'interessante ambientazione variegata e ben fatta, che unisce al gusto dello svago un moderato tentativo di erudizione. Ci sono i Vampiri, ci sono le pistole, c'è la Guerra dei Trent'anni (e il meroitico, la ROA, praticamente ogni albo mi insegna cose nuove o tratta miei interessi).
La serie tecnicamente ha molti pregi, almeno rispetto al mio gusto: non c'è la riproduzione sterile di uno o due schemi narrativi; praticamente ogni albo è autoconclusivo, ma perfettamente inserito in una continuity curata con attenzione; c'è un universo intero di riferimento in cui si inseriscono intrecci maggiori (il sistematico sterminio dei cattivi e l'atavica lotta tra Bene e Male vista come mantenimento di un equilibrio preesistente); il compromesso tra autonomia delle scelte narrative e citazionismo (che nel fumetto, ma in generale nelle arti contemporanee, è inevitabile) è accettabile e senza timore ci può essere un'astensione dall'accusa di banalità.
Questo quadro roseo è stato ampiamente rovinato dallo Speciale numero 7, uscito questo mese, che ho letto l'altro giorno.

Oltre all'uscita regolare di albi mensili, viene pubblicato annualmente uno Speciale (e successivamente anche un ulteriore albo, Maxi Dampyr) con una storia in qualche modo di rilievo, pur sempre inserito nella continuity. Finora si era dato rilievo, approfondendo, alcune tematiche fondamentali della serie, o al contrario si era dato ampio spazio (è il caso dell'anno scorso) a un filone narrativo altrimenti tagliato fuori; lo Speciale contribuiva insomma alla serie, soddisfacendone gli scopi e le intenzioni.
Invece lo Speciale numero 7 è completamente slegato da tutto questo. La cosa non è di per sé grave: una volta instaurato un patto con il lettore (Dampyr ha migliaia di lettori fedeli, e forse io sono il meno appassionato) è perfettamente comprensibile un momento di svago, un albo (peraltro etichettato come Speciale) in cui i protagonisti vengono inseriti con un espediente in un "mondo" diverso da quello della serie regolare. Come quando ai personaggi di un fumetto si fa recitare un qualche classico della letteratura.
A prima vista ci troviamo di fronte a qualcosa di simile. L'albo celebra infatti il pilastro stesso dei fumetti, il "genere" con cui il fumetto si è diffuso enormemente, che ha gettato le basi delle aspirazioni letterarie dei migliori sceneggiatori, a cui è ancora in qualche modo relegato: i supereroi. La lotta dei tre protagonisti contro le legioni infernali si avvale infatti della collaborazione di un classico eroe mascherato dotato di superpoteri, il manierista Shadowman. 
Si tratta evidentemente di un espediente, ma che ha un risvolto che non mi è piaciuto per niente: nella breve introduzione l'albo viene presentato come il coronamento di un sogno nel cassetto del disegnatore che lo ha realizzato, Alessandro Baggi, il quale non ha resistito alla tentazione di inserire se stesso nella storia (sceneggiata dal buon Mignacco).
Insomma, il fumettaro mette in scena una storia che piace a lui, inserendo se stesso. Una scelta che a mio avviso parte dal presupposto dell'esclusione del lettore.

Si tratta, me ne rendo conto, di una posizione dura: sicuramente una larga fetta di lettori (la maggioranza?) sarà stata contentissima di vedere la contaminazione con il tipo di fumetti che probabilmente ha divorato in gioventù; casi di metafumetto ce ne sono altrove (l'ultimo che ho letto è lo stanchissimo numero 300 di Dylan Dog) e magari piacciono anche, specialmente se è il primo in cui ci si imbatte; una componente giocosa nel fumetto sarà sempre ammessa, altrimenti sarebbe non solo letteratura consacrata, ma anche noiosa e di nicchia.
Ciò non toglie che quest'albo rompe con una delle caratteristiche più note e apprezzate della serie, la già citata attenzione alla continuity. La sospensione della stessa viene giustificata come il realizzamento di un sogno del cassetto di uno dei disegnatori, al lettore è augurato solo buon divertimento, con buona pace del patto con lo stesso, completamento ignorato.
Il fatto che io dia così tanta importanza a questo Speciale è riconducibile a una preoccupazione più generale riguardante la serie: Dampyr viene pubblicato da undici anni e comincia a mostrare segni di stanchezza. Ritornando ai due poli, mi sembra evidente uno spostamento verso le logiche di mercato. Un circolo vizioso: Dampyr vende bene; al lettore piacciono determinate caratteristiche (schemi narrativi; approfondimento scenografico); per mantenere queste caratteristiche gli intrecci maggiori vanno diluiti, sennò la serie a un certo punto finisce, come le vendite; ma a questo punto rimangono solo alcune caratteristiche, mentre altre sono necessariamente modificate; ne risente la ricetta originaria della serie che con il passare del tempo diviene qualcosa di diverso.
Con le maglie più larghe degli intrecci maggiori abbondano storie basate di più sui soli schemi narrativi (da qui arriva l'accusa di stanchezza) e anche lo spazio per momenti di svago, e "regali" ai fumettari.

A me questo processo pare in qualche modo inevitabile, se non viene programmata la fine della serie a tavolino; qualcosa di simile è già avvenuto anni fa con Dylan Dog e ho deciso che il tetto oltre il quale una serie della Sergio Bonelli Editore perde lo smalto originario è quello dei centoventi numeri.
A me questo processo non piace, e preferisco di più l'idea di una bella serie con caratteristiche ben determinate che a un certo punto termina, invece di "annacquarsi" progressivamente, fino a una diminuzione eccessiva dei lettori che ne decreta la crisi o chiusura. Penso la stessa cosa dei telefilm, in cui forse questo processo può essere notato più facilmente.
Per questo lo Speciale numero 7 non mi è piaciuto, perché punta solo sulla fedeltà del lettore a una serie di discreto successo. Peraltro la storia in sé mi è sembrata veramente insipida e solo nel finale scorrevole.

Tirando le somme, penso che con questo albo si possa diagnosticare una crisi gravissima del fumetto italiano: la principale casa editrice preferisce a scelte coraggiose le logiche di vendita, ma così facendo va a danneggiare i principi ispiratori delle serie che le distinguono l'una dall'altra; la specifità delle sceneggiatura viene snobbata apertamente, confidando in una momentanea soddisfazione nonostante il generale appiattimento.
Questo è mitigato dalle miniserie Bonelli, che sono infatti un'ottima idea. Ma queste sono necessariamente meno approfondite nella caratterizzazione e negli intenti e magari latita anche una certa originalità: nella quarta di copertina dello Speciale stesso c'è il lancio di una nuova che ha per protagonista un vendicatore mascherato nella Cina di inizio Novecento (trovata che mi sembra più sterile contaminazione che trovata geniale).

La generale stanchezza che attribuisco è sicuramente dovuta al costante calo delle vendite di fumetti in Italia e mi rendo conto di quanto debbano essere difficili le scelte editoriali in momenti come questo. In più, è nel frattempo morto Sergio Bonelli, che lungi dall'avere una visione romantica dei suoi prodotti, aveva probabilmente condizionato le diverse scelte compiute sinora. Non so quanto la sua scomparsa si rifletterà sul gruppo editoriale, anche se ovviamente i fumetti che escono ora risentono sicuramente di una politica basata sulle sue decisioni. Lo dico perché altrimenti avrei potuto chiudere in modo romantico, affermando di aver notato questa decadenza acquistando il primo albo dopo la sua morte, quasi che non ci fosse scampo alla scomparsa di un eroe del fumetto.

Matteo R.

1 commento:

Luigi ha detto...

Questo post mi è piaciuto tantissimo, non solo per l'argomento scelto (pur non essendo un cultore di fumetti mi piace molto questa forma espressiva), ma soprattutto per lo stile in cui è scritto: scorrevole e completo.

Detto ciò, non ho letto il fumetto in questione (né lo speciale né gli episodi "normali"), quindi non posso giudicarlo a pieno titolo.
Mi ha colpito molto, però, la tua riflessione sulle serie infinite. Non mi ero mai soffermato sulla questione, ma in effetti la tua riflessione mi sembra molto condivisibile: programmare a tavolino un limite temporale potrebbe giovare molto alla freschezza dei prodotti. Già ai tempi di "Caravan" ero stato conquistato dall'idea della miniserie, ad esempio.
Non solo: credo che qualcosa con un respiro limitato, in un modo o nell'altro, potrebbe avvicinare anche altri lettori. Io, ad esempio, trovo difficile approcciarmi ad una serie a fumetti, perché sento che mi sono perso troppo e forse non riuscirei a calarmi pienamente nello spirito della serie. Cicli più brevi aiuterebbero (forse).
Certo, poi c'è da valutare la crisi globale e quella dell'editoria in particolare. Però mi sembra che questo post analizzi bene la situazione

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