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sabato 22 ottobre 2011

This must be the place - La recensione


Quando un regista italiano gira un film negli Stati Uniti con delle star hollywoodiane è sempre un evento, ma lo è ancora di più da alcuni anni a questa parte, con il nostro cinema ridotto al ruolo di comparsa sulla scena internazionale. L’annuncio che Paolo Sorrentino – uno dei registi nostrani più apprezzati degli ultimi anni – avrebbe girato un film col il due volte Premio Oscar Sean Penn ha avuto quindi una risonanza notevole, ed anche io, nel mio piccolo, ho drizzato le orecchie.

Devo ammettere di non conoscere molto la carriera di Sorrentino: prima di questo film avevo visto soltanto L’amico di famiglia, che non mi aveva entusiasmato e che avevo trovato piuttosto sgradevole (effetto voluto, immagino). Mi sono perso invece sia l’acclamato Le conseguenze dell’amore sia il pluripremiato Il divo, quindi non sapevo bene cosa aspettarmi da This must be the place. Vi racconto allora come è andata.

Il film parla del viaggio che Cheyenne, rockstar in pensione da lungo tempo ritiratasi dalle scene, intraprende attraverso l’America per portare a termine la missione cui suo padre aveva dedicato tutta la vita: trovare il gerarca nazista che, ad Auschwitz, lo aveva umiliato. Dopo un inizio graduale ambientato a Dublino, durante il quale ci viene presentato il personaggio, il film prende la piega di un road movie, passando da uno Stato all’altro e procedendo per incontri e scenari.

La prima cosa che salta all’occhio, già nelle scene iniziali, è l’assoluta padronanza dei mezzi esibita da Sorrentino. Mi sento tranquillamente di affermare che This must be the place è un film girato in maniera eccezionale, soprattutto per l’uso che il regista fa della telecamera: una macchina da presa mobile, che sta ferma il meno possibile e che permette a Sorrentino di esibirsi in movimenti fluidi e lunghissimi su e giù per lo schermo. Ma c’è di più: alcune scene denotano una notevole inventiva per quanto riguarda il posizionamento della telecamera o i suoi spostamenti, dando vita a intuizioni originali e mai banali che sono una gioia per gli occhi. Lasciatemelo dire: da questo punto di vista This must be the place sembra un film americano.

A confermare questa impressione è ovviamente anche il cast, formato in massima parte da attori hollywoodiani. Di Sean Penn mi sembra superfluo dire che è magistrale nella sua interpretazione, e basta un solo secondo per lasciarsi conquistare dal personaggio che è riuscito a costruire (due elementi su tutti: la risata e la camminata). Ma anche gli altri attori sanno il fatto loro: l’unico nome noto è quello di Frances McDormand (moglie di uno dei Coen, già Premio Oscar nel 1997), che interpreta la moglie del protagonista, ma il resto del cast è fatto di ottimi anonimi caratteristi che svolgono egregiamente il proprio lavoro.

Anche il comparto tecnico si presenta benissimo. Il film è una gioia per gli occhi, e il merito va equamente diviso tra la regia di Sorrentino e la fotografia di Luca Bigazzi, uno dei principali direttori della fotografia italiani nonché collaboratore storico del regista: il suo contributo è silenzioso ma fondamentale, e aggiunge un ulteriore tassello allo splendore formale del film, regalando scene visivamente molto efficaci (la traversata del deserto, l’arrivo sulla neve).
Straordinaria, poi, la colonna sonora. Curata da David Byrne, ex leader dei Talking Heads, alterna canzoni rock di rara efficacia a pezzi strumentali dalle sonorità elettroniche, perfetti per descrivere il viaggio fisico e interiore del protagonista. L’apice del film, da questo punto di vista, è la bella (e coraggiosa: saranno almeno tre minuti di film) scena in cui lo stesso Byrne compare in un cameo, intento a suonare e cantare con il suo gruppo il brano che dà il titolo al film.

La cosa bella di tutto ciò è che, pur sembrando un film americano, This must be the place non lo è. Nonostante sia stato più volte definito “il primo film americano di Sorrentino”, questa è una produzione interamente europea, frutto degli sforzi congiunti di Italia, Francia e Irlanda: una cosa di cui andare orgogliosi, secondo me, visto il livello tecnico della pellicola, che non ha nulla da invidiare a quelle statunitensi.

Un capolavoro, dunque? Purtroppo no. This must be the place, a mio parere, ha un solo, grande difetto: la sceneggiatura. Non tutto fila liscio nella scrittura del regista e di Umberto Contarello, soprattutto per quanto riguarda la storia, che a un certo punto procede quasi per incontri più o meno casuali. Pur avendo un filo logico, questa struttura risulta dispersiva e un po' troppo frammentaria, risultando in fin dei conti irreale. Per di più, alla fine della visione, rimangono diversi punti oscuri: alcuni elementi sembrano essere lì per caso (il trolley: un esempio di MacGuffin?), certi personaggi compaiono e scompaiono senza motivo (il pellerossa, il tizio che gli fa guidare il pick up), e alcune scene risultano poco chiare (a partire da quella finale, non chiaramente decifrabile). Una scelta voluta, forse, ma che lascia l’amaro in bocca. Soprattutto perché – questo va detto – la stessa sceneggiatura è piena di dialoghi memorabili e taglienti, e riesce anche a costruire dei personaggi molto interessanti (memorabili il cacciatore di nazisti e il mitico Robert Plath, il vero inventore delle valigie trolley!).

In definitiva, This must be the place è un film che mi ha lasciato una sensazione positiva. È bellissimo da vedere, soprattutto dal punto di vista tecnico e attoriale, ma le sue mancanze in fase di sceneggiatura mi impediscono di consigliarvelo ad occhi chiusi. In ogni caso, la dimostrazione che, con una certa dose di coraggio (e un budget elevato), si può fare buon cinema anche da questa parte dell’oceano.

Luigi

12 commenti:

Tiziana ha detto...

Più affidabile di mymovies e Imdb!

Valeria ha detto...

Condivido più o meno tutto quello che ha detto Luigi: il film è girato benissimo, il personaggio di Sean Penn è caratterizzato in maniera splendida (tanto da poter meritare tranquillamente un Oscar) e la sceneggiatura ha - più che dei buchi al suo interno - qualche scena apparentemente inspiegabile. Probabilmente qualche nodo potrebbe essere sciolto semplicemente dopo una seconda visione del film, mentre altri saranno destinati a rimanere tali per lo spettatore. Ad ogni modo, stranamente queste incongruenze non mi hanno disturbata, anzi ci sono servite come spunto per fare delle congetture più o meno surreali!
Quindi non siate timorosi e andate a vedere questo film. Dovete darci la vostra - preziosissima - interpretazione!

Matteo R. ha detto...

Anche io penso che questo film non sia un capolavoro, ma è sicuramente un ottimo film.
La struttura frammentaria mi ha attirato parecchio, è in effetti una cosa nelle mie corde, e l'ho preferita persino alla caratterizzazione del personaggio che, a parte essere una prova del talento di Sean Penn, mi è sembrata sterile per certi versi.
Al di là di questo, la trama un suo senso ben chiaro ce l'ha, peraltro neanche così originale, e nei punti in cui diviene ambigua e misteriosa credo si volesse dare spazio alla fantasia dello spettatore.
Ora mi guarderò anche i film "italiani" di Sorrentino, perché come regista lo trovo veramente bravo.

Il Cavicca ha detto...

Premesso che io il film non l'ho visto...ma la recensione, mi piace, la trovo professionale. Spero però che il cinema Italiano sia portato alla ribalta da Terraferma, che merita enormemente, per contenuti e regia mozzafiato.

Luigi ha detto...

Mi fa piacere che Matteo abbia visto il film (suppongo sulla spinta della mia recensione).
La struttura frammentaria (o forse episodica) può piacere o non piacere; a me tendenzialmente non piace, anche se a volte può essere funzionale al racconto. Però trovo che si corra il rischio di perdersi per strada qualche pezzo, in questo modo, e credo che sia ciò che avviene in "This must be the place".
Magari in quei punti oscuri si voleva davvero dare libero sfogo alla fantasia dello spettatore; ancora una volta è questione di gusti, anche se in questo caso la spiegazione mi sembra scivolare verso la scusa. A mio parere è sempre meglio spiegare tutto, o almeno tutto il possibile.

Cavicca, ma tu mi aduli. Io "Terraferma" non l'ho visto, quindi non posso giudicarlo (né giudicare la sua candidatura come rappresentante italiano alla lunga trafila degli Oscar). Posso dire che aveva una bellissima locandina. Però il film precedente di Crialese, "Nuovomondo", non mi aveva convinto per niente.

Il Cavicca ha detto...

Lo so che storicamente è difficile che una cosa entusiasmante per me lo sia anche per te. Però dagli una seconda chanche a Crialese, perché Terraferma è uno dei migliori film che io abbia mai visto in vita mia, e penso che possa seriamente far rivalutare il nostro cinema.

Antonio ha detto...

Luigi caro,

hai colto nel segno gli aspetti principali del film. Posso dirmi sostanzialmente d'accordo con te. Tranne che per un punto: i "buchi" di sceneggiatura, il lavoro di sottrazione di Sorrentino e Contarello che non fa cogliere alcuni passaggi logici, le apparizioni non spiegate sono il vero punto di forza del film, se vuoi ciò che lo rende unico. Il segreto di un'opera che sia davvero originale, secondo me, consiste proprio in questo: nel non spiegare tutto, nel non dire, nell'omettere, nel lasciarti nel dubbio. Anche perchè: chi l'ha detto che si deve per forza capire tutto? Non è più bello restare in balìa dell'incertezza?

Luigi ha detto...

Va bene Cavicca, guarderò "Terraferma" prima o poi. Le tue affermazioni mi hanno colpito. (comunque a volte mi hai consigliato, specie in campo musicale, delle cose che mi sono piaciute)

Caro Antonio, grazie ancora per il commento. Sono molto contento che tu abbai detto la tua, e soprattutto che tu abbia espresso un altro punto di vista sulla questione: è sempre un bene lo scambio di opinioni.
Però io rimango della mia idea: non credo che l'incertezza e i salti logici aiutino sempre e comunque nei film. In casi come questo mi viene sempre in mente una stessa domanda: se la sceneggiatura l'avesse firmato un Pinco Pallino qualsiasi - e non un regista affermato - qualche produttore si sarebbe convinto a finanziare il film? Mmm, non saprei...
La mia è sicuramente una prospettiva più "commerciale". Però penso che in questo film - che per il resto è realizzato benissimo e a mio parere è da vedere (lo dico a scanso si equivoci, capito Tiziana?) - la narrazione della vicenda sia più un punto debole che un punto di forza.

fungo ha detto...

luì,
a me il film è piaciuto,
ma l'ho vissuto male.
ho passato tutta la durata del film a chiedermi il perchè dei titoli di testa in verde fluo (disgustosi) e non sono riuscito a godermelo.
ma cazzo, punti tanto sulla fotografia e poi la rovini schiaffandoci sopra la calligrafia delle copertine dei piccoli brividi???

un bel film,
ma quei titoli di testa in un paese civile sarebbero roba da ergastolo.

Luigi ha detto...

Hai colto nel segno: quelle scritte sembrano prese di peso dai Piccoli Brividi. Chissà perché poi.

Ma i Piccoli Brividi esistono ancora o sono un retaggio della nostra infanzia?

fungo ha detto...

non so...
in ogni caso nel garage dove suon o con un gruppo c'è una libreria con un sacco di piccoli brividi anni 90 e un'altra manciata di animorph (te li ricordi? sempre letteratura scadente per ragazzi, erano storie di ragazzini che si trasformavano in animali)
da piccolo non leggevo ne gli uni ne gli altri però.

lui ma è vera la storia che tu vai a roma3?
(lo diceva pantera)

Luigi ha detto...

Gli Animorph me li ricordo ma non li ho mai letti). Invece di Piccoli Brividi ne ho una ventina, e alcuni erano appassionanti (ricordo uno in cui una famiglia andava al luna park e proprio lì si scatenava un'invasione di zombie)
L'immagine del garage pieno zeppo di roba anni '90 è meravigliosa.

No, non vado a Roma3. Pantera dice fandonie

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